La Sesta Generazione di registi cinesi

Gli anni Novanta vedono diplomarsi all'Accademia del Cinema di Pechino la nuova generazione di registi cinesi, la Sesta, che si distingue immediatamente da quella precedente per un nuovo modo di filmare, adottando uno stile molto più asciutto, spesso quasi documentaristico, cui si unisce, pur tuttavia, una sferzata creativa, che riesce a darci una testimonianza fedele ed attendibile dei profondi cambiamenti avvenuti in seno alla società cinese degli anni '90. L'occhio delle cineprese ( e da adesso anche delle videocamere digitali) si sposta dalla realtà quasi mitica spesso dipinta dagli esponenti della generazione precedente ad una molto più urbana e direttamente connessa alla vita quotidiana. Al centro delle vicende raccontate non ci sono più concubine, contadini, banditi e soldati, ma persone comuni, spesso reietti od emarginati, alle prese con problemi di tutti giorni. In realtà il termine piuttosto generico con cui solitamente si definiscono quei registi cinesi che hanno cominciato ad operare nella decade appena passata (la sesta generazione) è stato più volte messo in dubbio dagli stessi protagonisti, e ridotto a espediente giornalistico per più facilmente catalogare una fase di trapasso nella storia della cinematografia cinese. L'oramai veterano Lou Ye ad esempio, in un'intervista di un paio di anni fa, ha affermato che quest'espressione è stata coniata dagli occidentali per schematizzare in maniera forse un pò semplicistica un'intera corrente composta da cineasti molto differenti tra loro, per età, stile, concezione delle opere e naturalmente tematiche . Nel corso di un'altra intervista poi, Lou Ye ha aggiunto che preferiva riferirsi a questo gruppo di artisti con la perifrasi generazione dei 386 mhz, dove 3 stava per oltre i trenta, otto per cresciuti negli anni Ottanta e 6 perché nati negli anni Sessanta . Ma chiaramente anche questa definizione risulta inadeguata, in quanto alcuni dei registi cresciuti artisticamente negli ultimi dieci anni, probabilmente non rispondono a nessuno di questi requisiti. Comunque li si voglia definire, i registi che succedono alla Quinta Generazione, come si è detto, spostano la loro attenzione da una riflessione proiettata in un passato più o meno "storico", ideale per le elaborate ricostruzioni di ambiente di Zhang Yimou e Chen Kaige, ad un cinema più diretto, esteticamente spoglio, memore tanto del neorealismo italiano quanto di certo cinema francese degli anni Sessanta . La città, con i suoi intricati, spesso disumani sistemi di vita, diviene il palcoscenico privilegiato sul quale ambientare le storie del nuovo cinema cinese - realistici, spesso brutali scorci di vita vera, impietose radiografie di un malessere da modernità che sembra corrodere i pilastri stessi della vita sociale cinese. Pechino, metropoli senza speranza (la città dolente di Hou Xiaoxian), città che più di ogni altra nel Paese riflette la difficile transizione dall'epoca comunista a quella del socialismo di mercato, e Shanghai, emblema del boom economico dell'ultimo ventennio, sono il più delle volte scelte obbligate - ma non è raro che l'attenzione dei registi si appunti su centri relativamente minori. Il ritorno di Hong Kong alla Cina poi ha segnato l'inizio di una nuova epoca per questa cinematografia, non solo da un punto di vista stilistico ma anche da uno più strettamente commerciale. A partire dagli anni Ottanta, il cinema di Hong Kong si è saputo conquistare una crescente popolarità anche in Occidente, guadagnandosi nuovi mercati e riconoscimenti critici in virtù dei talenti vertiginosi di artisti come John Woo e Tsui Hark . La cinematografia hongkonghese, forte di questo improvviso sviluppo, è potuta perciò divenire una valida partner commerciale per la più debole consorella cinese. La relativa facilità con cui può reperire capitali freschi, ha permesso a diversi giovani registi cinesi di poter operare in relativa tranquillità.Gran parte dei film della Sesta Generazione sono infatti finanziati, in tutto o in parte, da produttori dell'ex colonia britannica, dove si respira un clima più libero, meno vincolato dal cappio del sistema censorio cinese. La co-produzione, anche con capitali occidentali e giapponesi, o la creazione di società proprie, restano i modi più efficaci per sottrarsi alla censura che continua ad essere piuttosto severa. E’ il caso per esempio di Lou Ye, di Zhang Yuan o di Jia Zhangke che hanno beneficiato proprio di questo nuovo modo di finanziamento. Lou Ye peraltro nel 1998 ha fondato la Dream Factory, una delle prime case di produzioni cinematografiche indipendenti cinesi, finanziando tra gli altri Guan Hu per la realizzazione di Midnight Walker, per il suo Super City Project. Altri cercano il sistema di finanziamento classico, ossia il passaggio obbligato attraverso il Bureau del cinema. E' il caso del giovane regista Cheng Er (classe 1976) e di Wang Xiaoshuai, le cui prossime opere, almeno teoricamente, dovrebbero essere prodotte dagli studi cinematografici di Pechino. Fino ad ora, la censura rimane l'ostacolo più grosso per questa generazione che si vede impossibilitata a mostrare le proprie opere ai connazionali, seppur raggiungendo un certo successo, almeno di critica, in occidente. I protagonisti delle storie raccontate da questi registi sono spesso reietti ed emarginati, confinati nelle periferie delle grandi metropoli. Certo è che questi temi sono stati affrontati anche da alcune cinematografie tipicamente vicine a quella cinese, come quella appunto di Hong Kong e quella di Taiwan, e si può dire che l'influenza è reciproca. In ogni caso è il disagio il liet motiv di queste produzioni. Wang Xiaoshuai, Zhang Yuan, Cai Minglian, Wong Karwai, Jia Zhangke, Fruit Chan, Ning Ying, Zhang Ming e altri, nonostante le anche notevoli differenze stilistiche, pongono la loro attenzione su quadri di quotidiano squallore, su esistenze condotte al margine.